Il Fashion Revolution dice basta allo sfruttamento di donne, uomini e bambini nelle industrie tessili delle grandi marche e fa scendere in campo i consumatori per chiedere una moda più etica e solidale.
Alle 8.45 del 24 aprile 2013 collassava su se stesso il Rana Plaza, un edificio commerciale di otto piani, situato a Dacca, capitale del Bangladesh. Passato alla storia come «il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna»1, morirono 1.134 operai tessili e ne rimasero feriti più di 2.500.
Da tempo, lo sfavillante mondo della moda nasconde una parte oscura, trascinata di prepotenza dinanzi l’opinione pubblica grazie a numerosi reportage condotti dalle associazioni contro lo sfruttamento dei lavoratori dell’industria tessile globale, prima fra tutte la Clean Clothes Campaign (CCC). Nonostante le sconcertanti rivelazioni affiorate c’è ancora tanta strada da battere per più concreto miglioramento delle condizioni lavorative in termini di tutela e diritti.
Il Fashion Revolution Week si è svolto dal 18 a 24 aprile, in 86 Paesi del mondo, per dare al futuro della moda un volto più etico, sostenibile e rispettoso delle persone e dell’ambiente. Tanti gli eventi che si sono svolti e che hanno visto coinvolti anche personaggi celebri, come l’attrice Rosario Dawson, il regista Andrew Morgan, la giornalista Cristina Gabetti e tanti altri.
Per ricordare il triste evento del 2013 e per non dimenticare coloro che, seppur meno noti dei grandi stilisti, lavorano ogni giorno nella filiera produttiva della moda, il Fashion Revolution ha sfidato i consumatori a colpi di hashtag. Partecipare è stato semplice: era necessario, infatti, indossare i vestiti al rovescio, scattare una foto con l’etichetta bene in vista e condividerla sui social taggando le grandi marche del mondo fashion attraverso l’hashtag #WhoMadeMyClothes. Chi ha fatto i miei vestiti?
Il Fashion Revolution è stato creato in Gran Bretagna da Carry Somers e Orsola De Castro, due fashion stylists, pioniere del fair trade, che da anni scendono in prima linea per sensibilizzare l’opinione pubblica in fatto, non certo di stile, ma di acquisti etici.
Carry Somers: “Quando tutto nell’industria della moda è focalizzato sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono persi. Questo deve finire, abbiamo deciso di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa. L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai vestiti che indossiamo. Non sappiamo più chi sono le persone che fanno i nostri vestiti, quindi è facile far finta di non vedere e come risultato milioni di persone stanno soffrendo, perfino morendo”.
In Italia l’evento è stato coordinato dalla stilista Marina Spadafora che commenta: “È andata bene, decisamente. Ci sono state così tante manifestazioni che penso che il desiderio di aumentare il livello di consapevolezza sul percorso produttivo ci sia. Ora molte più persone lo conoscono.
In attesa dell’evento del prossimo anno, l’obiettivo di fashion victim e non è ora più chiaro: puntare il dito verso quelle aziende che non rispettano i diritti dei lavoratori e tenere più in considerazione coloro che producono i vestiti che compriamo. Quindi, chi ha fatto i miei vestiti?