Myanmar: le donne giraffa, leggenda di seduzione o schiave turistiche?

“Donne giraffa”, oppure “Donne cigno”, questo è il nome che viene dato alle donne di una particolare tribù famose per il gran numero di anelli in ottone che portano al collo, li portano per essere belle, perché i canoni della bellezza tra la loro gente richiede un tale sacrificio, tanti anelli intorno al collo per essere rispettate, ammirate.

Stiamo parlando delle donne dell’etnia birmana dei Kayan, chiamata anche Padaung, che vivono tra Myanmar e la Thailandia; figure femminili sospese tra realtà e leggenda, donne forti e pacate, in apparenza felici della loro vita, anche se per noi è incomprensibile la loro scelta, ogni anello portato al collo arriva a pesare anche dieci chili, ogni attività quotidiana diventa più faticosa, dall’accudire i figli, alla preparazione dei pasti.

Inoltre gli anelli deformano il corpo, non è il collo ad allungarsi, ma bensì le spalle che si abbassano, le clavicole scendono e tutto il torace subisce una compressione che in alcuni casi può portare a seri disturbi e anche alla morte.

Ma le Donne giraffa scelgono fin da bambine il loro destino, legato ad antichi rituali e racconti del passato che vengono celebrati ogni giorno attraverso gli anelli di ottone che imprigionano il collo di giovani e anziane; scelgono perché cosi gli è stato insegnato, perchè è la loro cultura, scelgono anche per nuovi motivi, legati a nuovi eventi, e alla perdita della loro terra d’origine: la Birmania.

La leggenda racconta di spiriti malvagi che aizzarono contro le donne di questo popolo tigri feroci per punirle di colpe di cui più nessuno ha memoria, i grossi anelli d’oro al loro collo, ai polsi e alle caviglie dovevano proteggerle dagli attacchi mortali, poi gli anelli col passare dei secoli diventarono meno preziosi ma sempre più simboli di bellezza e seduzione, pare che gli uomini del posto siano attratti da queste donne dai lunghi colli metallici.

Fin qui tutto risulta esotico ed attraente, se non ci fosse un risvolto malinconico che ridimensiona il fascino di questa singolare tribù, pare che ormai tutto sia ridotto all’attrattiva turistica; pare che dove vivono ora non siano libere ma trattate come  attrazioni turistiche, come animali allo zoo; obbligate dal governo a vivere come fenomeni da baraccone a sorridere a chiunque facendosi riprendere e fotografare come scimmie in una gabbia.

Una comunità di circa 7000 persone, esseri  umani a uso e consumo dei turisti in cerca di emozioni esotiche che ignorano dolori e sofferenze di questa popolazione di rifugiate senza diritti se non quello di vendere oggetti che realizzano artigianalmente in ore e ore di lavoro forzato, e non avere la libertà di potersi integrare nella società; un risvolto doloroso e deludente per chi ha ancora rispetto dei suoi simili.