Vi siete mai chiesti, guardando il cartellino del prezzo su alcuni “prodotti biologici“, se tale etichetta fosse veritiera? Avete mai pensato che il termine “biologico” fosse solo un alibi per applicare un premium price ad un determinato articolo? Ebbene, non siete i soli!
Peter Laufer, scrittore e professore di giornalismo presso l’Università dell’Oregon, è sempre stato fortemente scettico, perchè l’etichetta “biologico” gli sembra troppo spesso uno strumento per maggiorare i prezzi e anche perché tali prodotti, il più delle volte, giungono a destinazione attraverso catene di approvvigionamento che si estendono agli angoli più remoti del mondo. Gli Stati Uniti, ad esempio, importano soia dalla Cina, spezie dall’India, frutta secca dalla Turchia.
Due prodotti di recente hanno catturato l’attenzione di Laufer: un barattolo di fagioli neri biologici provenienti dalla Bolivia e un sacchetto di noci biologiche, rivelatesi rancide, prodotte in Kazakistan.
Di fronte a questi alimenti, “L’allarme frode” mentale di Laufer è scattato all’istante e così il professore ha cercato di scoprire esattamente da dove provenissero questi prodotti. Come racconta nel suo libro “Organic: inchiesta di un giornalista per scoprire la verità dietro l’etichettatura alimentare” , l’uomo ha interrogato store managers, distributori e la società che ha certificato i fagioli come biologici. Non è stato semplice ottenere risposte, il che lo ha reso ancor più sospettoso.
Secondo Laufer, almeno negli Stati Uniti, esiste un conflitto di interessi intrinseco al sistema: le aziende che effettuano i controlli per certificare i prodotti come biologici sono pagate da coloro che vengono certificati e vi è concorrenza tra i certificatori, quindi un agricoltore o un azienda potrebbero decidere di rivolgersi a chi applica un minor rigore.
Laufer è convinto che le frodi siano una prassi comune, anche se i suoi scritti non provano direttamente la sua teoria.
Per quanto riguarda i fagioli, il giornalista è volato in Bolivia e, dopo aver parlato con l’agricoltore che li ha coltivati, si è convinto che fossero realmente un prodotto biologico.
Le noci del Kazakistan, invece, restano un mistero. Dopo quel lotto rancido, Laufer non ha più trovato il prodotto nel negozio e, frattanto, il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti ha investigato e non ha trovato alcuna prova di noci di produzione biologica in Kazakistan.
In risposta a Laufer, i pezzi da novanta del settore affermano che la parola “biologico” sia molto più affidabile rispetto alla maggior parte delle etichette riferite ai generi alimentari; a differenza di “naturale“, per esempio, il termine vuole davvero dire qualcosa di preciso. Gli agricoltori biologici hanno regole da seguire, e certificatori terzi ispezionano le loro operazioni per assicurarsi che ciò avvenga. Tali certificatori, peraltro, testano una certa percentuale del prodotto ogni anno per verificare che non vi sia un uso illecito di pesticidi e sebbene i certificatori, effettivamente, siano pagati dalle aziende che certificano, il loro lavoro è controllato dall’USDA (Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti).
Secondo George Kalogridis, funzionario dell’Ecocer ICO, molte persone sono diffidenti sulle importazioni di prodotti biologici perché non si rendono conto di quanto ampiamente si siano diffuse le idee alla base dell’agricoltura biologica e che soprattutto quelle idee non abbiano avuto origine negli Stati Uniti.
Nell’ultimo periodo, l’USDA ha ricevuto circa 200 denunce all’anno su prodotti biologici ritenuti non tali e solo nel 2013, 19 agricoltori o aziende alimentari sono stati multati, per un totale di 87000 dollari, per abuso dell’etichetta “biologico”.
Considerato che i casi di frode hanno coinvolto tanto gli Stati Uniti, quanto altri paesi del mondo, come al solito i pregiudizi sull’importazione lasciano il tempo che trovano e l’unica cosa che il consumatore finale dovrebbe fare è quella di giudicare di volta in volta il singolo prodotto ed eventualmente segnalarlo a chi di dovere.
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