E’ una delle mete più suggestive per gli amanti della natura, per i nostalgici del cinema western e per tutti noi che abbiamo amato i film di Bud Spencer e Terence Hill. Era il 1970 quando in questa zona, in un parco naturale diviso tra Lazio e Umbria, si girava il film “Lo chiamavano Trinità”, diretto da E.B. Clucher.
Dietro quella roccia, la stessa che possiamo toccare anche oggi, si nascondeva la spia messicana più famosa del nostro cinema western.
“Emiliano non tradisce, gringo!”, diceva con voce tremante, e già sul nostro volto si disegnava un irrefrenabile sorriso.
In una scena precedente, su quel promontorio da cui si domina la valle, c’erano loro due, Trinità e Bambino.
“Salve! E’ il Signore che vi manda!” gridava da lontano il pastore degli agricoltori.
“No, passavamo di qui per caso!” rispondeva Bambino, con il cavallo che scalpitava sotto la sella.
Era la prima volta che la comicità diventava l’elemento fondamentale di un film western.
E’ trascorso quasi mezzo secolo, i due leggendari cowboy hanno lasciato i grandi schermi, sono passati attraverso i tubi catodici dei vecchi televisori e sono arrivati fino a noi, nello splendore dei 42 pollici Full HD. Ora sono le casse con Dolby Surround a diffondere il celebre fischio di quella colonna sonora, ma la gioia per gli occhi e per le orecchie, ad ogni passaggio televisivo, è la stessa di allora.
C’è però chi vuole andare oltre quelle due ore di relax e divertimento intervallate dagli spot; e così, cartina alla mano, inizia il viaggio: prende l’autostrada A1 che porta verso Roma, devia sull’A24 in direzione dell’Aquila ed esce a Carsoli, poi segue il bivio per Oricola-Pereto e arriva nel paese di Camerata Nuova, al confine tra Lazio e Umbria. Siamo nel Parco Regionale dei Monti Simbruini, e già si respira aria di western all’italiana. Qui, dalla piazza di Camerata Nuova, si segue il cartello che indica l’altopiano di Camposecco, e si inizia l’avventura su una strada sterrata in salita, che per mezz’ora metterà a dura prova gli ammortizzatori dell’auto.
Si è quasi tentati di proseguire a piedi, ma i cartelli che segnalano la presenza di lupi, orsi e serpenti, sembrano rendere più accogliente l’abitacolo dell’auto. Se siamo in inverno, il candore della neve potrebbe rivelare le tracce dei cervi. Se siamo circondati dall’erba bruciata di una torrida estate, certo più adatta alle atmosfere da film western, sciami di mosche entrerebbero dai finestrini, e i muggiti del bestiame al pascolo arriverebbero fino a noi.
In ogni caso si va avanti, il paesaggio comincia a cambiare e diventa familiare. Quegli alberi, quel terreno, quelle rocce ci ricordano qualcosa. Proseguiamo ancora, e una musica da film western comincia ad echeggiare dentro di noi.
Finalmente, ecco che davanti ai nostri occhi si apre l’immortale panorama. Siamo davvero qui. Siamo arrivati nella valle di “Lo chiamavano Trinità”. Ci sentiamo all’interno di un film western, e ci sembra di sentire il nitrito di un cavallo lontano, come l’eco di un ricordo che si materializza davanti a noi. Allora prendiamo il binocolo e lo puntiamo su due figure che si muovono laggiù, nel fondovalle. Regoliamo la messa a fuoco, tratteniamo quasi il respiro e le lenti ci rimandano le immagini di un sogno ad occhi aperti. Sì, pensiamo, sono loro: Trinità e Bambino, che ancora oggi stanno cavalcando fuori dal tempo, come se ogni secondo della vita reale si fosse tramutato nei fotogrammi di “Lo chiamavano Trinità”. Sono proprio loro, continuiamo a ripeterci. Terence Hill e Bud Spencer. Eterni cowboy.
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